S.E. Mons Roberto Busti Vescovo di Mantova AZIENDA, CULTURA E FAMIGLIE SEMPRE VICINE ?
S.E. Mons Roberto Busti Vescovo di Mantova
AZIENDA E CULTURA E FAMIGLIE
SEMPRE VICINE?
U.C.I.D. BUSTO ARSIZIO 25 11.2015
Il mondo dell’economia e dell’azienda è strettamente interconnesso con il tema della cultura, della società e della famiglia. Tanto più in Italia dove il capitalismo familiare ha creato nel dopoguerra quel tessuto di imprese e di artigiani che ha rappresentato il volano di sviluppo del nostro paese e ha contribuito a creare un brand, «il Made in Italy», secondo a nessuno al mondo. L’attività d’impresa, fin dalle sue origini, è stata anzitutto un fenomeno relazionale che nel tempo ha maturato conseguenze economiche di sviluppo, benessere e ricchezza per tutti. Purtroppo, in tempi più vicini, si è diffuso un ben noto filtro ideologico che ha portato a travisarne la natura, fino a giungere al convincimento diffuso che comunque la ricchezza sia frutto di un comportamento negativo, quasi un furto legalizzato. Di certo, la cronaca non solo italiana di tanti scandalosi racconti non aiuta a cambiare pensiero, anzi!
La situazione attuale di crisi ci mette nelle condizioni di osservare con chiarezza il tradimento di principi dichiarati e ostentati, e la conseguente dilagante incoerenza pratica, che fa emergere in modo incontestabile una seria questione morale, non confinabile all’interno di una categoria di persone.
La crisi economica che stiamo vivendo, infatti, non riguarda solo gli imprenditori o i lavoratori, ma si accompagna a indicatori di degrado incontestabile: la forte evasione fiscale, la corruzione politica, che «tangentopoli» ha fatto emergere alla consapevolezza pubblica, ma non sconfitto, una informazione sempre meno indipendente e libera, ecc.
Anche le evidenze etiche tradizionalmente più condivise, come il rispetto della vita umana nascente o la distinzione e la complementarità dei sessi, tendono a saltare, in nome del diritto a una libertà utopica, disincarnata e contraddittoria, che sta minando alle fondamenta l’istituzione sociale e il suo futuro.
In questo contesto il tema etico, e di conseguenza, per quanto ci riguarda, il modello economico di riferimento che orienta la vita dell’impresa, del lavoro e della produzione, appare di grande importanza e meritevole di seria riflessione critica nelle sue categorie fondamentali.
Vi ha detto il Papa (31.10 u.s.): Siete “persone che si pongono l’obiettivo di essere artefici dello sviluppo del bene comune. Per fare questo voi dovete dare grande importanza alla formazione cristiana, soprattutto mediante l’approfondimento della dottrina sociale della Chiesa”.
1 – AZIENDA E CULTURA
La connessione tra impresa e cultura rappresenta un momento estremamente delicato su cui si fonda il presente ed il futuro della capacità di intraprendere del nostro paese, e in questo ambito, da imprenditori e dirigenti cristiani, dobbiamo con forza denunciare una deriva valoriale che, se non ripresa, renderà ancora più complicato il creare ricchezza nel nostro paese.
A tal fine, cerchiamo innanzitutto di sintetizzare i principali concetti che legano il mondo dell’impresa al mondo della cultura.
Se volessimo usare una immagine biblica potremmo forse paragonare la situazione attuale a quella della torre di Babele, che rende bene un mondo economico fragile, fondato su concetti che consentono di mediare valori diversi, alternativi tra loro e non più socialmente condivisi.
Ciò è possibile perché il linguaggio usato oggi in ambito economico non è più interpretato in modo univoco, generando incomprensioni, tensioni e a volte conflitti sterili, che non giovano a nessuno. Infatti, se il bianco per alcuni è verde, e se altri pretendono di aver diritto di considerarlo rosso, allora finiamo per parlare, ma non capirci più l’un l’altro, non avendo più una base semantica comune di riferimento.
Allora soffermiamoci su alcuni termini.
Il lavoro
Tutti oggi parlano di lavoro, ma con significati diversi e non coniugabili con la visione cristiana della persona umana.
Esaltiamo il valore del lavoro, come espressione della creatività umana, e dimentichiamo che è anche conseguenza del peccato. (Gen 3)
Diciamo che il lavoro è dignità, ma dimentichiamo che la dignità dell’uomo consiste innanzitutto nell’essere creato, maschio e femmina, a immagine e somiglianza ben riuscita di Dio e redento in Cristo.
Sosteniamo che il lavoro è un diritto, ma non sempre ci ricordiamo di aggiungere che è anche un dovere, motivato dalla responsabilità che ciascuno ha nei confronti della propria famiglia e alla collettività.
Ma su queste tematiche, anche come credenti, siamo spesso molto più disponibili a trattare e a mediare, nella ricerca di un dialogo che a volte rischia di sconfinare nel compromesso, e produce qualcosa che assomiglia tanto a quel sale che perde il sapore, di cui parla Gesù nel Vangelo.
Ancora il Papa: “L’impresa e il compito di dirigenti delle aziende possono diventare luoghi di santificazione mediante l’impegno di ciascuno a costruire rapporti fraterni, favorendo la corresponsabilità e la collaborazione nell’interesse comune”.
E’ curioso che la cultura dominante voglia rendere precari i legami familiari, proponendo unioni civili, matrimoni gay, uteri in affitto, eutanasia, divorzio, mentre si tenda a pretendere l’indissolubilità del legame tra impresa e lavoratore!
Lo stipendio
Tutti parliamo di diritto al lavoro, rievocando la carta costituzionale, ma in realtà molti intendono il diritto allo stipendio, a prescindere sia dal lavoro sia dalle condizioni di mercato più o meno favorevoli ad esso. Forse anche perché non ci sono i soldi per garantire gli stipendi ai quali ci eravamo abituati.
Così può capitare che certi lavori più faticosi e altri, più squalificati nella nostra cultura sociale, ma non sempre per questo meno remunerati, siano svolti da extracomunitari, mentalmente più attrezzati ad affrontare la vita con spirito di adattamento.
Questo fraintendimento sul diritto al lavoro ha creato una situazione che ci ha reso più deboli, di fronte alla crisi economica. Paghi dell’abbondanza materiale della nostra società consumistica, nella quale ci eravamo pigramente adagiati, abbiamo zittito le nostre coscienze di fronte a egoismi incredibili.
Se si è sempre denunciata l’evasione fiscale e la fuga dei capitali all’estero, bisognava tenere presente anche altri atteggiamenti non positivi: la scarsa produttività, quando metteva a rischio la solidità delle imprese e quindi il lavoro di tutti; o la minore attenzione alla lotta contro corruzione, che liberasse la produttività, e quindi difendesse gli stipendi, dall’obbligo per le imprese di corrispondere o di assumere personale su indicazioni politiche, per garantire non il lavoro a chi era capace e ne aveva bisogno, ma a rendite di posizione, legate ai favori clientelari ed elettorali.
Quindi l’azienda è andata sempre più a essere intesa come «stipendificio», e il dipendente sempre più come colui che deve averne comunque la garanzia, indipendentemente da tutto.
Il mercato
Un altro termine di cui si parla continuamente, e in merito al quale si consumano fraintendimenti clamorosi è il mercato, presentato da alcuni come una divinità invisibile alla quale sottomettersi, da altri come una realtà demoniaca da contrastare, da altri ancora come un cavallo da domare, imbrigliare e guidare.
In realtà, al di là delle posizioni ideologiche, l’economia, etimologicamente, rimanda alla buona gestione della casa, perché a nessuno dei componenti la famiglia manchi il necessario. Per questo, in un contesto umanamente sano, si va al mercato. Ci si va per vendere e acquistare beni e servizi, utili alla persona e alla famiglia, non per sperperare risorse in capricci. Quando ciò accade, il vero problema non è economico né finanziario, ma etico, e chiama in causa innanzitutto il mondo dell’educazione, i luoghi dove si formano le coscienze: in particolare la famiglia, la parrocchia, la scuola… e i social network?
Infatti, pur conoscendo le leggi del mercato, nessuno ha mai preso posizione nei confronti di politiche che le hanno asservite all’avidità, o hanno favorito sul nostro territorio, in modo acritico, l’insediamento di multinazionali, pur sapendo che nell’immediato offrivano stipendi facili, ma in prospettiva si tenevano le mani libere di licenziare e delocalizzare: tutti lo sapevano fin dall’inizio. Le leggi del mercato, così come le multinazionali, non sono mai state demoniache; il problema vero è che le usiamo quando ci fanno comodo, e le demonizziamo quando vanno contro i nostri interessi particolari.
La persona e la famiglia
Come ben sappiamo dunque, e non da adesso, il vero problema non sono le leggi dell’economia e dei mercati, ma la nostra incapacità di mettere al primo posto la persona umana intesa in modo cristiano. Spesso, infatti, diciamo persona, ma intendiamo il consumatore, il lavoratore, il manager, o semplicemente l’individuo, considerato a prescindere dalla sua identità umana e cristiana, costituita da una rete di relazioni e di valori trascendenti, prima fra tutte quella familiare. In questo modo ci sfugge la ricchezza di affetti e di significati di cui ogni persona umana ha bisogno. Ci sfugge la sua sete di trascendenza e dimentichiamo che «non di solo pane vive l’uomo». Il lasciar cadere il senso e il valore della famiglia come nucleo originario della vita non solo nel suo essere concepita, ma nel valore di una relazione destinata a tutto il tempo dell’esistenza (nonostante inevitabili contraddizioni), significa anche scuotere alla base uno dei principi che regolano tutto il resto, economia compresa. Non si tratta di trattare tutti con rispetto, ma di dare il nome giusto alla realtà umana.
Il moderno Stato sociale, figlio del razionalismo illuministico, sta mostrando in modo drammatico i suoi limiti, e anche la sua arroganza. Oggi, infatti, si trova nella necessità di tagliare servizi essenziali, e dopo essersi dimostrato impotente nei confronti della disoccupazione dei giovani deve ammettere di non essere neppure sicuro, un giorno, di garantire loro la pensione.
Di fatto, nella nostra società, è stata fatta una scelta politica cinica contro i giovani, che sono pochi, e a favore degli anziani, che invece sono tanti. I sindacati, del resto, tra i loro tesserati hanno ormai una grande maggioranza di anziani, che tutelano e difendono i loro diritti, a scapito di chi non è ancora entrato nel mondo del lavoro. Sul versante del costo del lavoro l’azienda in crisi è nelle condizioni di poter risparmiare solo sui giovani, assunti a partita IVA o contratti di formazione o a progetto nelle forme che continuamente cambiano di nome, ma lasciandoli nella sostanza sempre precari. Non c’è da stupirsi se molti giovani appaiono demotivati nei confronti del lavoro e alcuni addirittura non provano neppure più a cercarlo.
“Pensate ai giovani – vi ha detto il Papa – e siate creativi nel creare opportunità di lavoro che vadano avanti; perché chi non ha lavoro non solo non porta a casa il pane, ma perde la dignità”.
2 – DA DOVE COMINCIARE?
La breve analisi che abbiamo proposto, certamente da integrare da tanti punti di vista, porta a una conclusione molto chiara, se la si vuole vedere: la ricchezza sociale, e quindi il lavoro che la produce, non è innanzitutto un problema di soldi, ma di testa. Quanto prima riusciremo a purificare il nostro modo di pensare, liberandoci da stereotipi datati che ci hanno portato a questo punto, tanto prima – per quanto dipende da noi – usciremo dalle pericolose sabbie mobili nelle quali ci siamo impantanati. Solo così ritorneremo a produrre ricchezza, ma soprattutto creeremo le condizioni per una sua equa redistribuzione, in un contesto etico più solido, che sappia resistere alle lusinghe dell’egoismo e alla scorciatoie che sempre suggerisce l’avidità.
Da cristiani, si tratta di rievangelizzare le categorie culturali che abbiamo indicato, per renderle strumenti utili a un rinnovamento dell’economia. E’ interpretando in modo diverso i concetti con i quali parliamo del mondo del lavoro che possiamo cominciare a ricostruire una nuova etica aziendale, indispensabile per uscire dalla crisi. Non siamo noi a dirlo, ma gli economisti più autorevoli, che continuano a ribadire come all’origine della crisi non ci siano tanto cause tecniche, quanto principalmente etiche.
Ciò significa che non ne usciremo in modo stabile facendo leva solo sulle soluzioni tecniche. Ci dicono, ad esempio, che bisogna aumentare i consumi. Questo certamente può dare una boccata d’ossigeno a chi sta morendo di asfissia; ma possiamo credere che il futuro economico della nostra società consista nel coltivare ancor di più la mentalità consumistica e materialistica che l’ha prodotta? E se invece la soluzione fosse un’altra: quella di educare in modo diverso alla vita, al senso del lavoro, al valore della essenzialità e della sobrietà, alla responsabilità sociale nei confronti delle popolazioni che stanno peggio di noi e che, se non considerate solo come terre di conquista e sfruttamento, potrebbero diventare nuovi mercati per lo sviluppo comune?
Il ripensamento della cultura aziendale di produzione non può fare a meno di invocare anche una cultura del consumo, al quale tutta la società dovrebbe essere impegnata. Le aziende, infatti, potranno ripensare il loro ciclo produttivo con attenzione al rispetto delle persone, della loro salute, dell’ambiente da non inquinare, per uno sviluppo sostenibile e rispettoso della vita umana; ma il mercato che assorbe i suoi prodotti ha bisogno di essere reso più etico dalle scelte consapevoli dei consumatori. Se infatti essi vengono educati ad acquisti attenti alla eticità della filiera di produzione, possono premiare e quindi rendere più competitive le aziende che fanno scelte etiche. Questa opera educativa ricade su tutta la società, in particolare sulle agenzie educative principali quali la famiglia, la scuola, la parrocchia; ma non meno gli strumenti di comunicazione attuali che invece hanno assunto proprio la direzione contraria (social network ecc).
Come imprenditori noi possiamo certamente entrare in sinergia virtuosa con una cultura del consumo che ci consenta di produrre in modo etico, tutelando le persone che lavorano e le loro famiglie, l’ambiente, ecc. Sono il patrimonio per il futuro della società.
Il Papa vi ha raccomandato particolarmente tre cose. Favorire l’armonizzazione tra lavoro e famiglia, con una particolare attenzione alle donne lavoratrici, alla maternità e alla loro presenza in famiglia. Una grande attenzione alla cura del creato per realizzare un progresso più sano, più umano, più sociale e più integrale. Francesco ha definito questo impegno come una chiamata a essere missionari della dimensione sociale del vangelo nel mondo difficile e complesso del lavoro, dell’economia e dell’impresa e comporta anche un’apertura e una vicinanza evangelica alle situazioni di povertà e di fragilità. E ha continuato: Questo sarà anche un modo a voi proprio per mettere in pratica la grazia del Giubileo della Misericordia…. Non basta fare assistenza, non basta fare un po’ di beneficenza; questo non basta, anche se è forse il primo passo. E’ necessario orientare l’attività economica in senso evangelico, cioè al servizio della persona e del bene comune.
Perché ciò possa realizzarsi bisognerebbe riscoprire seriamente la sapienza del «principio di sussidiarietà», di cui ci parla ormai da molto tempo la Dottrina sociale della Chiesa, e dunque liberare le risorse e il protagonismo della persona, della famiglia e dell’impresa, non solo in ambito economico ma anche educativo; e a ridimensionare l’ingerenza di uno Stato sociale ideologico, che pretende di provvedere tutto a tutti, e finisce in realtà per inibire le potenzialità personali e sociali, soffocando famiglie e imprese con una tassazione ormai assurda, finalizzata al mantenimento di un dispendioso apparato burocratico, che finisce per tutelare le rendite di posizione di pochi fortunati a danno dei più deboli.
Sarebbe troppo lungo documentare qui come il principio di sussidiarietà sia maturato nella Chiesa nel tempo, con gradualità. E’ la stessa gradualità che dovremmo con pazienza promuovere nella società, ripartendo dalle priorità fondamentali, che nell’ordine, per noi, sono la persona, la famiglia, la comunità di lavoro e di vita, il proprio territorio. Lo Stato viene dopo, e le sue riforme, di cui si parla come se fossero risolutive, servono solo se vanno nella direzione di liberare e valorizzare le enormi risorse presenti nella società.
Il Principio di sussidiarietà, che dovrebbe essere a fondamento del vivere civile, di fatto è stato scardinato, perché lo Stato pretende, con arroganza, di curare e indottrinare i propri sudditi dalla culla alla tomba. Il fisco, di conseguenza, è diventato ormai come lo sceriffo di Nottingham, ma non è più credibile: invece di essere strumento che promuove il bene comune, è percepito come coercitivo e piratesco, perché con la creazione di norme, addirittura anche retroattive, finisce per depredare e impoverire la ricchezza privata e sociale, invece di promuoverne lo sviluppo.
In questo modo, però, si entra in un circolo vizioso, di cui stiamo vedendo i disastri e le contraddizioni. Ne sono penosa testimonianza gli attuali e riprovevoli atti di intolleranza contro gli extracomunitari. Il fatto è che quasi mai sono sintomo di razzismo; quasi sempre invece sono la conseguenza di una gestione clientelare del potere, che tutela i pochi molto ricchi, impoverisce le classi intermedie spingendole verso l’indigenza e scarica la povertà della crisi sui deboli, mettendoli di fatto gli uni contro gli altri. Come facciamo, ad esempio, oggi a sostenere che la priorità sono i migranti quando l’anziano vedovo vicino di casa fatica a vivere con la pensione, gli hanno rubato in casa e mai sarà risarcito; il figlio divorziato, per mantenere la ex moglie, deve andare a mangiare a casa del padre tre volte la settimana?
Molti sono gli esempi che potremmo addurre, ma tutti derivano da un disordine etico di origine culturale, che non sempre vede noi cristiani impegnati, perché non di rado anche noi mostriamo di avere le idee confuse. Dobbiamo ri-educarci anche noi: con umiltà, ma con serietà: soprattutto come cristiani che non possono né debbono più far conto di convinzioni superficiali, ma fare una operazione di radicamento della propria fede.